“Nu pensiero annuro”

O' Professore

 

Accade a volte  che rifletti sulle parole

Le vedi per ciò che sono: codici per disegnare te stesso. 

E comprendi che  non sono tutto ciò che vorresti trasmettere. 

Mi chiedo da alcuni giorni quali sia il motivo che mi suggerisce di scrivervi questa lettera.

Tento di dare una risposta, confinando in un luogo appartato della mia coscienza la sensazione di imbarazzo che compare di tanto in tanto.

Credo possa accadere quando si vuole esporre parte di una propria struttura di pensiero e  quando si trasmette una idea che ti disegna. E’ il terreno sul quale chiedo un confronto, una riflessione ed un prezioso consiglio che lo provoca.

“Nu pensiero annuro”: di te ha gli umori e il colore, l’ atmosfera “intima”. Non ha codici, non nasce per essere comunicato. Vive in te.

Se le emozioni di queste mie parole scritte sulla carta potessero  prender forma , allora vedrei il mio inconscio,la mia  passione,la fantasia,le aspirazioni. 

Vedrei me stesso e   quelle “solite” cose che solo la retorica allontana dall’enorme profondità che rappresentano.

La mappa non è il territorio !

Lo ripeto per non  dimenticare che la realtà ha una sua oggettività e che le immagini e le emozioni che vivo la rendono mia,e  la cambiano.

Come in ciascuno di noi

Impongo alla coscienza uno sforzo razionale…solo per un attimo. Poi torno a  nuotare   nei colori del mio vissuto.Mi rileggo e riconosco le mie parole 

Ecco allora l’imbarazzo !

Scrivo di un pensiero mio, confesso la mia intimità,  affido le mie incertezze.

Nu pensiero annuro !

Scelte ! 

Io non penso che esistano domande fondamentali e se esistono  non riguardano il fare ma l’essere.

Il “fare” corrisponde ad un livello diverso, meno profondo:  E’ variabile che dipende dall’essere. Nelle mie azioni mi rappresento; la forma che assumono mi somiglia; è il mio essere che le plasma.

Discutere dell’essere, di sé, dei propri valori e dei propri principi, della propria visione delle cose, delle proprie idee, può trasformarsi in un dialogo troppo profondo per essere condiviso.

Io lascio tali riflessioni all’eleganza del rapporto intimo che ciascuno ha con se.

Oltre la sfera intima, personale, privata, esiste però  un aspetto “sociale” del “sé”

Quando vivi la società a cui appartieni, quando vuoi partecipare alla sua crescita, quando tutti gli ideali che ti hanno accompagnato nella vita bussano insieme alla porta della tua coscienza perché vogliono che tu li “comunichi”, per confrontarli, per comprendere se esiste una empatia con altre persone, allora un dialogo intimo non è né sufficiente né opportuno.

Un gruppo è l’habitat naturale per la definizione della propria “socialità”

Io non conosco lo spirito che ci ha animati e convinti a partecipare al II corso.

Non so se le scelte siano state estetiche (prestigio della funzione, retribuzione,ruolo sociale,ecc.), etiche ( possibilità di contribuire da una posizione diversa alla vita sociale del paese,  valutazione delle proprie potenzialità, ecc.), opportunistiche ( tutto sommato è un buon concorso, sempre meglio di essere disoccupati), di ripiego o cosa altro.

Con ogni probabilità la scintilla che ha mosso ciascuno di noi è una sintesi dialettica  di ognuna di queste possibilità, e forse di qualche altra.

Non ho dubbi, però, sullo spirito che ci ha pervasi durante il calvario accademico. Siamo sempre stati tutti convinti della necessità di fare qualcosa, di rappresentare laddove necessario una frattura con un passato della vita amministrativa italiana in cui non ci identifichiamo, che sentiamo lontano dai nostri valori.

In ciò io vedo il principio, l’idea comune a tutti noi: è questa volontà di rappresentare la nostra cultura, le nostre esperienze, la nostra visione della professionalità offerta come contributo allo sviluppo del sistema che ci rende “gruppo” prescindendo dall’evento unificante; cioè dalla comune partecipazione al corso.

Anche per mancare il bersaglio bisogna prendere la mira !

Quando i dirigenti pubblici non esistevano affatto esistevano comunque le posizioni organizzative di vertice, occupate a secondo dei compiti e delle responsabilità da personale distribuito secondo un criterio gerarchico. 

La nascita del ruolo dirigenziale non richiese l’acquisizione di nuove professionalità o competenze. Si trattò semplicemente di dare nuove etichette ai gradoni della piramide organizzativa, con buona soddisfazione di chi, dopo anni di vita nella carriera direttiva, riusciva a superare l’agognato concorso interno ed a vedersi la spada della nomina sulla spalla e qualche spicciolo in  più in busta paga.

Dunque ambire alla dirigenza non era esattamente ciò che potremmo definire “rispondere ad una vocazione” ma “sfruttare una occasione”. 

La dirigenza pubblica è vissuta in tal modo, sospesa tra i funzionari amministrativi ed i direttori generali, tra leggi che riconoscevano maggiori poteri e la volontà di non assumersi eccessive responsabilità.

Con gli anni la situazione è andata via via migliorando: maggiore preparazione tecnica e un certo svecchiamento hanno contribuito almeno allo sviluppo di un dibattito sulla dirigenza. Uno strano dibattito, direi, tenuto conto che le opinioni e le proposte sono sempre giunte da soggetti diversi da coloro che appartenevano alla dirigenza e ne esercitavano le funzioni.

Se la funzione professionale restava nell’ombra quello che emergeva chiaramente era la necessità di limitarne il peso politico e sociale. 

Non si comprende infatti quale forza misteriosa abbia impedito ad una categoria che costituisce la seconda linea del potere di gestione amministrativa nel nostro paese, che ha un contatto diretto con le problematiche giuridiche, economiche e sociali che impattano con l’organizzazione statale, che ha la sostanziale responsabilità dell’amministrazione di migliaia di miliardi e di migliaia di dipendenti, che ha un potere di “influenza” notevole, non si comprende, scrivevo, cosa abbia impedito alla dirigenza pubblica di avere un ruolo “politico”  ed una dimensione sociale, una partecipazione concreta nello sviluppo dei dibattiti più importanti per la comunità.

La dirigenza pubblica non costituisce una voce, non fa proposte, non commenta, non critica, non collabora, non aiuta: non c’è.Il dirigente pubblico è, più o meno, un individuo facente funzioni non meramente esecutive.

Ragioni storiche, sociologiche e ragioni di stato: probabilmente è così.

Assenza di una reale vocazione.

Mi chiedo: politici, consiglieri di Stato, “ufficiali” di gabinetto, assistenti di partito, desiderano davvero una dirigenza forte, consapevole, professionale ? Sono in grado di cedere parte della loro influenza come contributo indispensabile alla formazione di una rinnovata classe dirigenziale ?

Scelte !

Libero i miei pensieri dal grigiore cavourburocratico con il quale la società mi consiglia di immaginare la funzione ed il ruolo della dirigenza pubblica. 

Ho imposto a  me stesso una sospensione del giudizio, una “epochè”. 

Michel Crozier, in un saggio sulla incapacità della classe dirigente francese di rinnovarsi, suggerisce una domanda che ciascun manager dovrebbe porsi: “ Quale è il contributo che posso offrire al sistema ?”. 

Il sociologo francese parte da una posizione vantaggiosa: in Francia esiste una classe dirigente, come esiste in Germania, in Inghilterra o in Spagna.

In Italia la dirigenza non riesce a definire una sua dimensione: più che un ruolo o una funzione la dirigenza è piuttosto una posizione organizzativa. Nella fantasia essa si rappresenta come l’apice di una scala o di  una piramide ma non si arricchisce di alcuna caratterizzazione.

Il legislatore ha cercato di rimediare ponendo la base di partenza per la formazione di una nuova classe dirigente  allorquando ha distinto tra potere politico e potere di gestione amministrativa, subordinando l’opera del dirigente ad un contratto ove siano chiariti i suoi obiettivi, determinato il “premio” e stabilite norme chiare per valutare le responsabilità. Infine la norma ha arricchito il suo disegno con la previsione di un organo che possa tutelare almeno la dirigenza di primo livello da illegittime interferenze del potere politico.

E’ storia nota !

Dunque i politici hanno colto l’esigenza del sistema di ottenere il supporto di una categoria con forti responsabilità e relativa indipendenza dal potere politico.

Non credo però che questa esigenza  possa essere  risolta nel “tecnicismo”, cioè nella sola competenza tecnica. Non credo che sia  questo il fattore che possa determinerà un diverso atteggiamento etico da parte dei dirigenti ed una diversa  “visualizzazione sociale” del ruolo. Forse con il tempo svanirà anche l’attuale giudizio sulla competenza media dei dipendenti pubblici in genere, al momento a mio parere non perfettamente condivisbile. Ma  il tecnicismo a cui la pubblica amministrazione tende rischia di divenire “utilitarismo” tipico della concezione settecentesca prima e scientifica  poi dell’organizzazione delle funzioni amministrative dello Stato.

Buona parte dell’attività “operativa” del dirigente si basa sull’applicazione, valutazione, analisi e predisposizione di documenti giuridici. C’è il rischio che volendo porre l’accento solo sull’aspetto “operativo” della professionalità si esalti il ruolo di “esecutore” di chiunque svolga funzioni manageriali. Alla domanda “Quale è il contributo che posso dare ?”, la risposta del manager potrebbe essere limitata a: “Applico serenamente e con coscienza la logica giuridica dominante”.

Certamente il manager deve essere competente, ed in particolare il manager pubblico italiano ha l’obbligo di conoscere le strutture giuridiche e normative che regolano la sua attività.

Personalmente ho lavorato con tante persone che avevano queste qualità, ma non per questo erano giudicate come “buoni dirigenti”, tranne che in quegli uffici  dove la competenza tecnica è tutto poiché a chiunque si chiede solo di eseguire funzionalmente decisioni già assunte altrove (è il caso degli uffici di diretta collaborazione e degli uffici contabili, per citare un esempio).

L’utilitarismo tecnico è stato cavalcato da molti all’indomani delle polemiche sulla gestione amministrativa dello Stato e delle proposte di snellimento, svecchiamento, ecc. In tanti hanno scomodato Wittgenstein per avvalorare la soluzione più comoda: tecnica, accademia, esecutività. Come conseguenza naturale di questo dibattito, svoltosi tra politici e consiglieri, sindacalisti e giornalisti, con i dirigenti messi da parte a svolgere il ruolo di “imputati”, è nato il corso concorso: didattica, ma non la previsione di strumenti che potessero contribuire alla nascita di una coscienza dirigenziale.  

Lo spunto positivo che la SSPA ha offerto, secondo me, è uno solo: è pur vero che l’enorme quantità di moduli proposti fa comprendere da un lato la totale incertezza circa le stesse competenze tecniche richieste, ma dall’altro fa emergere  la positiva necessità che il dirigente non si limiti al veicolo giuridico che guida ma estenda la sua capacità di analisi all’intero sistema.

In ciò io vedo un primo passo in avanti rispetto al passato: il dirigente, quale “organizzatore” della gestione amministrativa dello Stato, si pone come uno “scienziato sociale”, che interpreta il sistema, ne coglie gli aspetti tecnici necessari alla sua comprensione e li sviluppa all’interno della struttura amministrativa.

Questo mi fa credere che al dirigente sia richiesta una peculiare attenzione scientifica, e di ciò mi compiaccio poiché nulla è al di fuori del suo interesse ( o almeno nulla che riguardi la sfera dell’interesse organizzativo dello Stato)..

Ma ripeto che  sebbene ciò costituisca una evoluzione della definizione delle competenze  burocratiche del dirigente, oggi più complesse, tuttavia non è ancora sufficiente.

Anzitutto, sempre dal punto di vista tecnico, manca un approccio psico-sociologico ed è carente  la valutazione dell’importanza delle scienze organizzative. Chiunque svolge funzioni dirigenziali partecipa o governa una fitta rete di relazioni sociali e gestisce attività che spesso è chiamato ad organizzare in un percorso temporale e funzionale autonomo, poiché non sempre la norma detta le procedure  potendo in diversi casi limitarsi a fissarne solo i contenuti. Negli Stati Uniti ai manager (agli executive) viene richiesta una approfondita padronanza delle dinamiche sociometriche, delle tecniche di comunicazione, di gestione dei gruppi, dei principi psicologici che governano la collaborazione umana.  Scott sostiene che tali competenze costituiscano l’aspetto caratterizzante la professionalità manageriale. 

Ma, è noto, alcuni settori delle scienze sociali devono ancora trovare una autonoma collocazione nella cultura italiana: la sociologia, la psicologia  e il management continuano a pagare  il “dazio” per essere tecniche o sistemi scientifici che hanno avuto origine e sviluppo in società diverse, con un approccio più “razionale” verso la realtà.

Oltre ciò, manca la visione socio-politica del ruolo: “Quale è il contributo che posso dare ?” è domanda diversa da “Quale è il contributo che mi è stato chiesto ?”.

Per rispondere a quest’ultima domanda può essere sufficiente l’approccio scientifico.

Tentare di dare una risposta alla prima sottintende delle “scelte” che riguardano la filosofia  del ruolo (la sua essenza sociale), gli  ideali, i poteri, le responsabilità, gli obiettivi.

Siamo nel campo delle scelte etiche, ed è campo complicato da solcare poiché il meccanismo di “scelta” è duale: da un lato le scelte che riguardano la propria individualità ( a cui personalmente riconosco un valore intimo ed intenso, ma meno fondamentale e drammatico di quanto intenda affermare Kierkegaard nella sua teorizzazione del sistema etico); dall’altro le scelte sociali, di ciascuno quale membro della collettività .

In ciò io vedo i motivi che suggeriscono di mutare la visione del nostro gruppo.

Abbiamo diversi aspetti che ci accomunano: tra i tanti spesso dimentichiamo la cultura ed i valori più profondi  della generazione a cui apparteniamo. Alle critiche che muoviamo all’attuale organizzazione e funzionamento del sistema amministrativo e sociale ed alla volontà di rimarcare il nostro intento di non adeguarci ad esso, si aggiunge tutto ciò che siamo e tutto ciò che siamo stati.

Mi chiedo: nel nostro lavoro  potremo portare con noi le  letture, i Pink Floyd, Zagor e Diabolik, Pennac, l’Heysel, la guerra del Golfo, la televisione , i REM, internet,Pino Daniele, la new age, Baricco,  i videogame, Bandler,  le e-mail, Furia, Ufo Robot, Karl Popper, un pizzico di Kennedy,il rapimento Moro e la strage di Capaci,  il dispiacere per non aver vissuto Luther King ed il 68, e tutto quanto ci rappresenta ? Troveremo posto “noi” stessi al “nostro” fianco  dietro la scrivania ?

Io ritengo che essere un dirigente pubblico sia oggi una occasione per partecipare da una posizione di responsabilità allo sviluppo del paese, operando nel sociale attraverso la conoscenza  ed una visione dinamica e moderna dei problemi. Credo anche che abbiamo la fortuna di vivere un ruolo che attende solo di essere definito, ed è questo un vantaggio poiché siamo svincolati da categorie concettuali consolidate. 

Ma la funzione “sociale” e “politica” di questo ruolo impone non un atteggiamento individuale ma una coscienza di gruppo, una identità di gruppo.

Solo come gruppo abbiamo qualche possibilità di rappresentare ciò che siamo e di contribuire in modo sostanziale alla crescita del paese.

Sono d’accordo con chi ha suggerito di avanzare adesso qualche proposta concreta e di “creare” con abile manovra di marketing una nostra visibilità.

Spero che però ci sia maggiore attenzione verso i contenuti: per troppo tempo abbiamo dimenticato le nostre opinioni. Hanno cercato una dirigenza diversa: allora rappresentiamola, chiedendo l’occasione per dimostrare la nostra voglia di fare. Ma è indispensabile presentare anche delle proposte e non limitarsi a descrivere ciò che siamo quali allievi di un corso pubblico da tutti ormai conosciuto. Se ci vestiamo della diversità che il sistema vuole imporci ci adeguiamo ad esso. Sottolineiamo la diversità invece dei nostri atteggiamenti e il valore del nostro coraggio professionale.Non credo che presentarsi come i bravi ragazzi studiosi e preparati rende onore alle nostre idee e soddisfa il nostro desiderio di ideale diversità.

In altri paesi europei (Spagna, Inghilterra, Germania) governi che vantavano programmi ad alto contenuto progettuale e di forte impatto hanno utilizzato  manager giovani e estranei al sistema: ciò ha garantito la formazione di una nuova classe dirigenziale ed un notevole ritorno di immagine.

Il futuro premier afferma di avere una vocazione manageriale: c’è il “rischio” che possa cogliere l’occasione che noi dobbiamo creare, proponendoci.

Ho sentito di un week-end congressuale a cui saranno invitati a partecipare tutti gli allievi della SSPA: facciamone una occasione di confronto tra di noi per la predisposizione di un “manifesto” che esprima la nostra filosofia, i nostri impegni manageriali.

Parafrasando Schumpeter: creiamo innovazione reale.

L’esperienza della SSPA,poi, ha un valore molto relativo, a mio giudizio. La Scuola credo  abbia contribuito ad alimentare le possibilità di essere assorbiti dal sistema: né sono segnali il fatto che in nessun caso sia stato realmente incoraggiato un confronto serio tra di noi, che mai sia stato stimolato un dibattito concreto sul valore sociale e politico del ruolo, che  i continui richiami alle norme, alle regole, al decoro ed alla dignità hanno fatto sorgere un atteggiamento sovente ostile e colmo di pregiudizio nei confronti di chi, come il sottoscritto, non si è voluto adattare, magari mettendo sul piatto anche la propria credibilità e rischiando che a valutarla fosse un decreto del presidente del consiglio. 

Mi dispiace solo di essermi escluso troppo presto. Ciò mi fa leggere come ingiuste alcune mie opinioni, poiché è noto quanto sia semplice giudicare  ciò che altri hanno fatto.

Quando frequentavo il corso, durante le conversazioni con gli altri allievi, raccoglievo sempre le opinioni più disparate su questo o quell’argomento, su questa o quella visione delle cose, su questo o quel provvedimento. Nonostante l’enorme frustrazione provocata dalla accademia, si viveva un fermento interessante.

Poi, invece, è tutto finito: nelle diverse occasioni in cui mi è capitato di leggere i dibattiti interni al gruppo, tutto ciò che c’era nelle opinioni, nelle discussioni, nelle polemiche dei giorni di corso è come scomparso.

Ho addirittura potuto leggere un documento dove, immagino per ragioni di opportunità, si diceva  un gran bene della struttura stessa del  corso.

Ma, oltre tutto questo, in due anni ho avuto l’occasione di conoscere persone  di cui mi sono arricchito. Ho imparato più da questi inaspettati “colleghi” che dai docenti; ho visto e letto il coraggio delle proprie opinioni, la voglia di riunirsi, di “fare” gruppo.

Ho sentito il desiderio comune di ritrovarsi, di disegnare una propria visione di questa peculiare professionalità, di darle un senso che chiudesse i conti con il grigio passato e li riaprisse con le idee, la fantasia, il coraggio e la volontà della generazione a cui apparteniamo, senza con questo creare un estemporaneo conflitto.  

Ho visto la stazione delle idee, piena di treni colmi di grande dignità in attesa di partire: in alcuni casi non ho apprezzato il percorso, troppo formale ed ortodosso (come nel caso dell’Associazione) ma ne ho assaporato il senso di appartenenza; in altri casi ho provato orgoglio per essere uno dei 139 “allievi” della SSPA, lasciati dal 1 marzo 1999 da soli a decifrare, interpretare  e sviluppare un sistema che non è ancora chiaro se ha realmente voglia di accettarli o vuole limitarsi a utilizzarli.

E’ per questo che sono orgoglioso di essere uno di noi

                                                                                                Giòvanni

 

Aprile 2001

 

Morire in internet

 


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II Corso-Concorso di Formazione Dirigenziale della
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